SALE TABACCHI AI TEMPI DEL CHININO
Ha contribuito a salvare la vita a moltissimi malati di
malaria e a migliorare le condizioni di vita nelle campagne, ma quanti ancora
ricordano le minuscole compresse vendute dal tabaccaio...
Le ricette popolari: il vino chinato La ricetta è molto
semplice. Si prepara con 20 grammi di corteccia di china in polvere, si
aggiungono 600 grammi di marsala e si fa macerare (in recipiente di vetro
scuro) per dieci gg e successivamente si filtra.
Il chinino dello stato è di prima qualità ed
assolutamente puro. Si vende a basso prezzo dalle farmacie e dalle rivendite di
sali e tabacchi a ciò autorizzate e le une e le altre devono tenere sempre
esposta al pubblico una tabella con la legenda: Qui si vende il Chinino dello
Stato ..." Torino. Incrocio tra via Montevideo e via Giordano Bruno, nello
storico quartiere del Lingotto. Alzando gli occhi una scritta colpisce il
passante curioso": "fabbrica del chinino di stato". Oggi lo
storico edificio ospita il comando dei vigili urbani della IX circoscrizione,
ma un tempo fu un importante laboratorio manifatturiero dove era prodotto tutto
il "chinino" italiano. Ricordi dimenticati di quando le tabaccherie,
che nei paesi di ampagna si chiamavano "cense", ancora non erano le
sofisticate e tecnologiche boutique dei giorni nostri, ma quasi esclusivamente
le rivendite dei monopoli di stato. Sali e tabacchi, ma anche valori bollati e,
come qualche sbiadita insegna ancora riporta, anche chinino. L'idea di andare
dal tabaccaio a comperare il chinino oggi può fare sorridere, ma sino a una
cinquantina di anni fa come molti si ricorderanno era la prassi comune. Nelle
campagne, il chinino era la panacea per ogni tipo febbre e non solo; una
scatoletta con le amare pastigliette non mancava quasi mai sul comodino. Le
prime privatizzazioni degli anni '80 del secolo scorso portarono poi alla
progressiva limitazione dei generi di monopolio, sale, tabacco e chinino.
Poichè le vendite di chinino per la malaria erano da qualche
decennio in forte calo, quasi nessuno si accorse della sua scomparsa nei
tabaccai per tornare nell'ambito più consono delle farmacie. Il regredire della
malaria infatti, e la scoperta di nuovi antimalarici di sintesi (clorochina),
usati per la profilassi, determinò il tramonto del mitico farmaco, oggi
ritornato alla ribalta. Non serve per prevenire la malattia, ma in caso di
attacco acuto stronca irrimediabilmente il parassita, anche se non è immune da
effetti secondari. La malaria come si sa è veicolata da alcune specie di
zanzare del genere Anofele, presenti non solo nei paesi tropicali, ma anche da
noi quando le paludi erano più estese e vi si lavorava in condizioni igieniche
e di salute peggiori (l'ultimo caso italiano ma di importazione risale al
1970). Ironia della sorte magari sarebbe bastata una scatoletta di chinino a
salvare la vita al campionissimo Fausto Coppi, deceduto proprio per malaria.
Solo sul finire dell'ottocento viene dimostrata la correlazione tra zanzara,
palude e uomo e individuato il complesso ciclo vitale del plasmodio. A
distinguersi nelle ricerche è un medico zoologo di Pavia, Gian Battista Grassi.
Già da qualche decennio però era evidente come il chinino (sintetizzato a
partire dalla corteccia intorno al 1820) fosse un valido rimedio alle febbri
malariche. Per contrastare l'elevata mortalità lo Stato mise in essere alcuni
provvedimenti legislativi, volti a rendere disponibile a tutti e a basso prezzo
quel chinino che imprenditori illuminati utilizzavano già da tempo nei propri
poderi. Con la legge Garlanda (deputato biellese) del 1895 uno dei primi
provvedimenti da stato sociale, si stabilisce il prezzo politico e diventa
monopolio di stato, sottratto alla speculazione e con l'obbligo di
somministrazione dello stesso alle categorie a rischio. Nel 1901 a seguito della
legge Wollemborg, il chinino è posto in vendita anche nelle privative di sali e
tabacchi. La China nella storia Il chinino si ricavava dalla corteccia della
pianta nota prima come rimedio per la malaria e in seguito anche per usi più
prosaici, la China. Secondo alcuni il nome deriverebbe da Kina, cioè corteccia,
parola tratta dal dialetto di alcune tribù indie. Si tratta di varie specie di
piante esotiche arboree sempreverdi originarie della regione amazzonica delle
Ande, nell'America meridionale (Perù, Ecuador), del genere Chincona,
appartenenti alla stessa famiglia del caffè, le Rubiacee. La parte considerata
medicinale è la corteccia, che si ricava dal tronco e dai rami della pianta. Il
colore della parte interna differisce spesso tra le varie specie dando il nome
alle stesse. Quelle più diffuse, tutte con analoghe proprietà medicinali, sono
la Chincona succirubra Pavon (= C. pubescens) e la Chincona lancifolia, da cui
si ricava la china rossa, dal colore grigio rossastro della corteccia; la
Chincona calisaya Weddell, C. ledgeriana Moens, compresi gli ibridi da cui si
ottiene la china gialla e infine la Chincona officinalis che fornisce la china
grigia. Quest'ultima è tra le più utilizzate, con cortecce di colore bruno,
dalla superficie ruvida con macchie grigio argenteee. Proprio per i suoi
pigmenti fu anche usata dalle popolazioni andine prima e dai conquistadores
dopo, per colorare e tingere le stoffe. Naturalmente pure l'uso terapeutico
della "Kina" sembra fosse praticato dagli indios, documentato anche
da colorite storielle popolari: una di queste racconta di un indigeno, affetto
da febbri ricorrenti e tormentato dalla sete, che bevendo l'acqua di una palude
in cui maceravano alcuni alberi di china, guarì completamente. La storia
affascinante del rimedio inizia con la conquista spagnola; passò poi più di un
secolo prima che il segreto sull'uso della pianta contro le febbri, mantenuto
da alcuni guaritori locali, fu rivelato ad uno o più spagnoli. Anche il nome
del genere deriva da Ana de Osorio, contessa di Chincon e moglie del viceré del
Perù, che scoprì su se stessa le virtù della corteccia, guarendo da febbri
malariche e decidendone l'importazione in Europa (1639). Aveva un prezzo di ben
100 reali all'oncia in Spagna ed era prescritta nelle febbri, nelle
convalescenze e negli stati di affaticamento. I primi a introdurla in Spagna
furono i Gesuiti, il che le valse il soprannome di "polvere dei
gesuiti", mutuato a Roma in "polvere del cardinale", visto che
uno di questi, Giovanni de Lugo, avutala proprio dai Gesuiti, la distribuiva
con una filosofia alla Robin Hood: gratuitamente ai poveri e a carissimo prezzo
ai ricchi. Il nuovo farmaco, che guariva senza produrre "nessuna
evacuazione", quindi contro tutte le tradizionali teorie terapeutiche
dell'epoca, fu al centro di un'accanita polemica, mettendo a soqquadro il mondo
scientifico del '600. La sostanziale ignoranza circa le sue caratteristiche
farmacologiche contribuì tra il 1660 e il 1680 al nascere di molti rimedi
segreti per curare le febbri, spacciate per miracolosi, ma ad uno di essi
"il rimedio di Talbor" si deve il merito di aver convinto la medicina
ufficiale a riconoscerne le proprietà terapeutiche della china. Proprio un
medico italiano, Francesco Torti (1658-1741), nato e vissuto a Modena, si distinse
in tutta Europa per le sue ricerche sulla malaria e la somministrazione del
chinino. I principi attivi contenuti nella corteccia sono alcaloidi, in
particolare chinina, chinidina, cinconina e cinconidina, il cui contenuto varia
a seconda delle specie e della provenienza. Hanno varie attività
farmacologiche: la chinina, attualmente preparata sinteticamente, è stato il
primo farmaco antimalarico efficace sotto forma di solfato basico, ma ha anche
attività antipiretica ed analgesica. La chinidina è impiegata invece nelle
terapie delle aritmie cardiache. Seppure la china sia conosciuta per tutte
queste sue proprietà, stimola anche la funzionalità epatica e gastrica e ha
azione amaro-tonica. Chinino di stato Ancora una volta la
"provinciale" Torino è all'avanguardia. Sino al 1816 la
trasformazione del solfato di chinina in prodotti medicamentosi avveniva nei
locali del Laboratorio Chimico Farmaceutico Militare, struttura annessa alla
Farmacia Centrale Militare di corso Siccardi. Nel 1916 il Comune di Torino
delibera l'assegnazione di un'area di circa 14.000 metri quadrati per la
creazione di un nuovo stabilimento La nuova realtà produttiva prese forma nel
1922 quando nasce il Laboratorio Chinino di Stato, un complesso di dieci
capannoni, esteso su una superficie di 7.000 metri quadrati alle dipendenze del
Monopolio. Per ottenere una riduzione dei costi di lavorazione, il Monopolio di
stato acquistò dei terreni sull'isola di Giava, in Indonesia per impiantarvi
una piantagione di alberi di china. Con l'arrivo delle prime partite di
corteccia nel 1928 il laboratorio produce le compresse di chinino, vendute non
solo in Italia, ma anche in Grecia e Bulgaria. Nel 1939 il consumo di derivati
della china raggiunge le 37 tonnellate, tutti prodotti nel complesso torinese
che impiegava ben 150 operai. Nel dopoguerra la progressiva diminuzione del
consumo dei prodotti a base di chinino ( 6.458 Kg nel 1956) conseguenza della
drastica riduzione della malaria in Italia ma anche di più adeguati rimedi
farmacologici e la inadeguatezza di metodi di lavorazione obsoleti e bisognosi
di nuovi investimenti portarono il monopolio a trasferire le lavorazioni nello
stabilimento di Volterra, già attivo nel periodo bellico e dove già si
trovavano estese saline statali a chiudere la manifattura di Torino,
trasferendo i 50 dipendenti alla fabbrica dei tabacchi. Nell'ottocento gli
estratti di china, elaborati dagli speziali dei "vermouth" in alcune
farmacie torinesi, non soltanto vengono commercializzati come rimedi e
toccasana per febbri più o meno malariche, ma siccome sono anche
"buoni", diventano bevande di moda. La farmacia degli stemmi di
Torino produce ancor oggi la sua china. Nascono così i vari Ferrochina Bisleri
e Chinamartini Altre case offrono prodotti analoghi. All'ospite di riguardo
nelle case popolari e nei salotti piccolo borghesi in alternativa al caffè
viene offerto un cicchetto di "lixerchina" cioè di amaro elisir di
china Un altro farmacista ed enologo, Giuseppe Cappellano, pensa bene di
ammogliare la corteccia di china calissaja ed altre erbe al re dei vini, il
barolo. Nasce così il barolo chinato, a metà strada tra piacere e medicamento
(forse più il primo che il secondo), drink che ha avuto una certa popolarità e
che è tornato di moda in questi ultimi anni. I torinesi non sono comunque gli
unici ad usare l'amara corteccia: un suo derivato, il cloridrato di chinina
(amara), entra nella composizione di una nota marca di bibita gassata e ancora
oggi è tra gli ingredienti utilizzati per dare il sapore amaro alle principali acque
toniche.
Autore: Loredana Matonti Aldo Molino
Sito: Piemonte Parchi
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